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Non è davvero Natale a Napoli se non c’è sulla tavola il famoso e gustoso secondo piatto, quale baccalà fritto. Nonostante sia un piatto tipico di tutta l’Italia meridionale, è la Campania la regione d’Italia più legata al baccalà.
Si tratta di un pesce molto versatile, utilizzato non solo per la creazione di ottimi primi piatti, con vari tipi di pasta, il massimo lo tocca a mo’ di secondo piatto, all’insalata, al forno, con i pomodori ecc. Tuttavia “a morte ‘do baccalà è fritt a Natal”.
Baccalà fritto: piatto della vigilia
Tutte e due le vigilie, sia quella di Natale che quella di Capodanno, vengono rappresentate dalla preparazione di questo pesce fritto. Si tratta di una tradizione molto antica. Dopo aver tolto l’eccesso di sale al baccalà, va tagliato a pezzi e messo a colare. In questo modo perde anche l’acqua di troppo.
Prima di essere fritto, viene asciugato con della carta assorbente. Dopodiché si infarina e si griffe in olio abbondante (sia esso d’oliva o di semi la scelta è a discrezione personale). Viene mangiato ancora bollente, con sale e pepe a piacere o in alternativa con succo di limone.
Come è arrivato il baccalà in Italia?
Il baccalà non è un pesce originario italiano. Esso arriva dalle nostre parti ai tempi delle Repubbliche Marinare, quando cioè c’era un certo contatto tra i mercanti italiani e quelli del nord. Il baccalà era una merce che non si deteriorava facilmente ma rimaneva intatto nei giorni.
Sin dai primi utilizzi, in Italia impararono a mettere il pesce in ammollo e a tenerlo così per circa quattro giorni. Le donne facevano attenzione a cambiare mattina e sera l’acqua, così da rendere il pesce morbido e carnoso.
La storia del baccalà fritto
Stranamente le aziende che importano e conservano baccalà sono dislocate proprio in Campania. Forse anche per questo i partenopei sono più protesi a mangiare il pesce.
Tuttavia questa propensione esiste ormai da secoli come dimostra anche la letteratura. Esiste infatti un libro che racconta la storia del pesce merluzzo, “Baccalajuoli”. Si tratta di uno dei tomi della collana “Lo specchio di Silvia”, dove si parla solo del baccalà nella cultura napoletana si trovano, oltre che ricette, la storia del baccalà.
Aperta e chiusa questa parentesi, la diffusione del baccalà inizia nel 1500. All’epoca veniva considerata la “pietanza per poveri”. Non a caso, in città se ne consumava davvero tanto. Questo soprattutto perché a cavallo della Controriforma, la Chiesa non permetteva che si mangiasse carne nei giorni comandati, così da permettere un alto consumo di pesce.
“Sua Maestà il Baccalà”: uno scritto di Antonio Parlato
Tra i testi più noti però mai scritti sulla storia del baccalà c’è quello di Antonio Parlato dal titolo “Sua Maestà il Baccalà” in cui tra le altre cose si legge anche la simpatica e divertente filastrocca. Ovvero:
“Nei mari del Nord, tra un tuffo e uno spruzzo viveva beato il Pesce Merluzzo. Ma un giorno i Vichinghi dagli elmi a stambecco lo videro, e allora lo fecero secco. Strappato, a milioni dal placido Abisso e all’aria asciugato: è lo stoccafisso. I Baschi, che stavano un poco più in basso vedendo i merluzzi restaron di sasso: e i pesci, pescati con furia bestiale ficcati in barile restaron di sale. Nel mondo dilaga la gran novità: che grande sapore! Cos’è? Il baccalà”
L’alternativa del baccalà in pastella
Nel corso degli anni sono nate molte varianti per la preparazione di questo pesce fritto. C’è ad esempio chi preferisce il baccalà in pastella. Non serve altro che sgusciare 2 uova e dividere i tuorli dagli albumi.
Versare una ciotola 200 g di farina e un pizzico di sale che si sbattono con la frusta, e 2 dl di birra chiara (ovvero due bicchieri). Si aggiungono i tuorli e si chiude la ciotola con pellicola per una ventina di minuti. Sarà così pronta la pastella, in cui intingere il baccalà e poi friggerlo.